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venerdì 25 marzo 2011

Atti di fede razionale (Update)

Rileggo un vecchio post e lo trovo stranamente attuale nonostante l’età (del post, non la mia, maleducati Smile)

il tema della veridicità delle fonti diviene sempre piu pressante nel mondo moderno dove i centri di approvvigionamento delle informazioni sono molteplici.

La questione mi è ritornata in mente  diverse volte nel recente passato. A cominciare dall’affaire wikileaks per poi passare alle nostrane vicende politiche con ruby e papy ed infine alla recente tragedia giapponese.

Wikileaks mostracome le informazioni che spesso vengono presentate la pubblico non siano veritiere, esiste una dfferenza sotanziale, a leggere I cable segreti ripubblicati, tra cio che si dice e cio che si pensa realmente. curiosamente tra le furiose proteste nei confronti del sito di infromazione non vi è stato nessuno che lo ha accusato di mentire.

Ma nonostante non si metta in discussione la veridicità di quanto pubblicato non si cambiano gli assunti per I giudizi. Come a dire se il terreno è diverso dalla mappa, è il terreno sbagliato.

Le nostrane vicende invece mostrano semplicemente come sia facile reinterpretare le vicende a seconda di cosa si vuole credere. Cosi la vicenda Ruby, che ha dei contorni grotteschi da commedia di Vanzina, viene giudicata in base alle convenienze del momento. Ho già espresso le mie perplessità su questa storia in precedenza, mah…

Ma la ultima riflessione mi è venuta a seguito della lettura di alcuni thread che facevano riferimento alla tragedia giapponese. Si trattava di come interpretare le informazioni relative alle perdite nucleari della centrale di fukushima. Vale la pena credere alle dichiarazioni ufficiali del governo giapponese, o è meglio credere ai commenti della stampa occidentale, ben piu severi? Ancora una volta credere ad una fonte piuttosto che un’altra diventa fondamentale per poter farsi una idea di quello che accade, ma la necessità di un approccio critico sulla sorgente delle informazioni in questi casi appare piu che evidente. Va da se che nessuna fonte umana è, per sua natura, assoluta equindi va pesata nel contesto, ma non è esercizio semplice.

Il Brontolone: atti di fede razionale

Pubblicato da aierano in Uncategorized il 10 giugno 2009

Wednesday, December 10, 2008

Vecchio Post

Sappiamo tutto? Abbiamo sempre tutti gli elementi di scelta e di analisi?

La risposta purtroppo è no, in un mondo sempre più complesso i nostri strumenti di approvvigionamento delle informazioni sono sempre più disparati ma, contemporaneamente, ci allontaniamo sempre di più dalla sorgete del dato.

Questa è una costante della esperienza umana, la “realtà” che siamo abituati a vedere non è altro che il frutto di una costante reinterpretazione dei dati che riceviamo, nessuno dei dati della nostra esperienza sensibile è, però, diretto, tutti sono mediati.

Dal punto di vista biologico questa cosa è evidente, il nostro cervello rielabora le informazioni sensoriali e ne da una rappresentazione che forma la nostra percezione del mondo esterno. Questa rappresentazione è, per sua natura, una cosa differente dalla realtà, ma è tramite questa rappresentazione che possiamo interagire con l’ambiente che circonda.

Se paradossalmente la questione dal punto di vista biologico è chiara ed evidente, lo è meno dal punto di vista della comprensione umana del fenomeno. Il meccanismo di rappresentazione del cervello è tale che si ha la sensazione che ciò che “proviamo” sia la realtà, anche se sappiamo che questa “evidenza” altro non è che una rappresentazione e come tale frutto di una elaborazione.

Se cambiamo i parametri della elaborazione cambia la realtà? La questione è complessa in quanto la realtà non si limita ad elementi semplici, anzi nulla nella realtà è semplice.

Ciò che “è”, “è” e non può non essere.

Su questo sillogismo si basa la maggior parte della nostra logica, la sua evidenza era chiara fino a quando la filosofia naturale (la chiamano scienza oggi come oggi) non ha scoperto che un assunto del genere non è più valido.

Se la filosofia ha iniziato a demolire questo postulato da tempo immemore (esagero lo so, ma immemore mi piace come termine), sono la matematica e la fisica che ne hanno decretato la fine; se da un lato la matematica, ad esempio, si è aperta al irrazionale con l’introduzione dei numeri omonimi, la fisica con il principio di indeterminazione e poi con il dualismo particella onda ha fatto crollare le nostre certezze…

Purtroppo il mondo moderno ha deciso che si possa egregiamente fare a meno di logica e filosofia, come se queste servissero non a darci strumenti di analisi del reale ma fossero oggetti campati per aria ad uso di gente che non ha niente da fare di concreto, e quindi siamo rimasti privi di quegli strumenti basilari che ci consentano di gestire una dicotomia in cui il mondo rifiuta il principio di non contraddizione mentre noi non siamo capaci di pensare senza di esso.

La realtà non è ciò che percepisco, ma non lo capisco

Il risultato di questo buffo paradosso è che di fatto adottiamo strumenti di analisi logica inadatti a descrivere la condizione attuale di una realtà che sembra non rispettare le nostre leggi mentali, il risultato si riflette in un atteggiamento che vincola la nostra esperienza ad atti di fede che ci consentono di interpretare cosa stiamo provando senza esserne sopraffatti.

In realtà il meccanismo di accettazione fideistica degli strumenti di interpretazione è alla base del nostro apprendimento, nessuno pensa (o dovrebbe pensare) di poter gestire, tramite l’analisi empirica, tutto lo scibile che è costretto a processare per la costruzione del modello della realtà.

Tutte le volte che affrontiamo un problema partiamo da due posizioni distinte: o non ne sappiamo nulla e cerchiamo di informarci, o abbiamo già un preconcetto e cerchiamo di confrontare il problema contale strumento.

[nota dell’autore, per preconcetto si intende una idea, modello, interpretazione dell’evento fatta a priori e basata sulle nostre precedenti attività o conoscenze]

In realtà entrambi i meccanismi presuppongono che noi si abbia già una serie di dati esperienziali da cui partire, e questi dati sono essi stessi frutto di preconcetto o comunque di rielaborazioni. La imparzialità è una utopia legata al fatto proprio che la nostra esperienza è parziale. Ma questo è nella natura umana, e l’accettazione di tale meccanismo dovrebbe portare allo sviluppo di strumenti di analisi critica della realtà nella forma che vediamo.

Il problema nasce dal fatto che, in mancanza di modelli cognitivi diversi, ci troviamo a fare delle scelte di accettazione “fideistica” dei parametri di costruzione del modello della realtà. Sono scelte di fede razionale, nel senso che accettiamo per vero un dato in funzione della analisi più o meno razionale che facciamo della sua sorgente. Una volta accettato il dato questo diventa postulato della nostra interpretazione della realtà, fino a che non abbiamo la possibilità e la volontà di metterlo in discussione.

Parole inutili? Filosofia spicciola? Forse si ma se facciamo mente locale a come noi costruiamo il mondo che ci circonda ci dobbiamo per forza confrontare con il fatto che dobbiamo credere a qualcuno o a qualcosa.

Il reperimento delle informazioni: è vero perché’ ci credo

Non potendo vivere in un relativismo assoluto (che, se vogliamo, essendo un assoluto non è relativo) quando siamo di fronte ad un dato lo processiamo come vero o falso in funzione della fiducia che associamo alla fonte che ce lo tramette. Spesso questo atto di fede è inconsapevole, spesso è il media spesso in cui viviamo che ci porta a fare questa scelta.

I primi media che ci danno questa sensazione sono i nostri sensi ed il linguaggio. Noi crediamo vero quello che vediamo perché ci fidiamo dei nostri occhi, poco importa il fatto che dovremmo sapere tutti che i nostri occhi non vedono la realtà ma la interpretano.

Cosi come la vista anche il linguaggio ci guida nella scelta di chi fidarci e di che dati siamo in gradi di processare, se non capiamo una fonte la consideriamo inaffidabile, la “comprensione” linguistica diventa quindi un elemento di discernimento tra il vero ed il falso. Quando si parla di linguaggio dobbiamo fare lo sforzo di considerare l’aspetto sia sintattico che semantico. La questione non è ininfluente, uno dei problemi fondamentali di chi si occupa di information tecnology e security è proprio la assenza di strumenti linguistici da parte dei non addetti ai lavori cui l’IT si rivolge. Il risultato di tali incomprensioni (più o meno coscienti) porta, ad esempio, alla endemica incapacità di fare calcoli di ROI reale in ambiente informatico, o alla deprimente mancanza di sviluppo di sistemi di organizzazione aziendale che siano confacenti alle possibilità delle nuove tecnologie.

Credere a qualche cosa diventa un atto di fede sempre più forte man mano che aumenta la complessità del problema e della analisi che facciamo di esso, durante gli studi ci fidiamo dei libri di testo, e questi ci portano a rappresentare la realtà in funzione di quello che abbiamo imparato. Questo significa, fondamentalmente, che la nostra percezione del vero è legata a quanto ci fidiamo della sorgente dei dati o del modello che utilizziamo. Alla fine noi diamo un valore di verità che non è oggettivo ma legato allo storico delle nostre rielaborazioni percettive. Non è vero perché’ vero, ma perché lo ritengo tale.

In questa ottica si corre però un rischio molto grosso quando la nostra analisi critica aggiunge un valore morale al concetto di vero o falso, ed il vero o falso diventa buono o cattivo.

Complottisti e debunker

Un classico esempio di questa deriva è il meccanismo complottista debunker. In questo confronto entrambe le “fazioni” usano strumenti di analisi della realtà analoghi, ma utilizzano una valutazione diversa della analisi delle fonti dei dati e, quindi, della veridicità delle medesime.

Il problema è se credere ed a chi credere, in funzione di questi assunti si decide quale sia la realtà. Cosi se da un lato il non credere ad alcune fonti legittima la ricostruzione alternativa, dall’altro proprio il credere alla fonti determina la accettazione. Volendo trascurare la malafede e quindi l’interesse a modificare volontariamente le informazioni le analisi di entrambi sono spesso logiche e razionali, salvo i fatto che non riconoscendo l’uno la veridicità dei dati dell’altro, le conclusioni sono agli antipodi. Introducendo però un fattore di analisi morale alla scelta della veridicità del dato si introduce anche una chiave di lettura tale per cui le due fazioni sono certe della malafede (o stupidità) della controparte proprio per il non volere accettare la evidente veridicità del dato.

La realtà è che entrambe le parti hanno speso ottimi motivi per dubitare, credere alle fonti da cui parte l’analisi ma i loro modelli di ricostruzione della realtà portano spesso ad un “dialogo tra sordi”.

Questo meccanismo è evidente sia nelle polemiche complottistiche ma anche, ad esempio, nella realtà politica italiana dove, il dato oggettivo non solo non esiste ma viene considerata negativamente anche l’analisi critica delle fonti (mi ricorda la frase: sei critico del marxismo e quindi fascista).

Lo stesso atteggiamento di chiusura si ritrova in tutti i settori, informatica compresa, dove sarebbe opportuno invece cercare di creare modelli di confronto dialettico più aperti.

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