Procedura di Tenebra
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🚷 Procedura di Tenebra: Viaggio attraverso la disperazione digitale
In un’epoca che prometteva semplificazione, abbiamo costruito labirinti.
In un mondo che invocava progresso, abbiamo eretto muri invisibili.
“Procedura di Tenebra” non è solo un racconto.
È un viaggio amaro — tra SPID che si moltiplicano in mille versioni incompatibili, tra pagamenti digitali che si perdono nel nulla, tra portali pubblici e privati che anziché servire, si servono.
Un itinerario cupo in cui pubblico e privato si piegano a una digitalizzazione sterile, autoreferenziale, che premia solo se stessa e dimentica l’uomo.
Un’analisi narrata che potrebbe forse piacere a Joseph Conrad, perché talvolta non bastano i dati o le normative:
serve scendere nel cuore oscuro dei meccanismi per comprendere quanto ci siamo allontanati dal senso.
Se anche voi avete mai avuto la sensazione di non essere cittadini digitali, ma fantasmi in una giungla senza mappe, questo viaggio è anche il vostro.
👇🏻 Qui il testo completo — per chi ha ancora voglia di leggere, capire, resistere.

“Viaggio attraverso la disperazione digitale”
liberamente ispirato alla mia esperienza digitale, con il post introduttivo su telepass.

Prologo: Il primo passo nell’abisso
Fu una mia colpa. Sempre e solo mia. Illudermi che la modernità, incapsulata in un’app scintillante o in un sito ben pubblicizzato, potesse essere figlia della ragione, della cura, della volontà di servire.
Telepass fu solo la prima eco di un presagio. La promessa di semplicità, spezzata alla prima interazione. Menu che si rincorrevano come ombre, funzioni che si negavano con errori tecnici, supporto irraggiungibile come un dio offeso.
Quel giorno, senza saperlo, avevo messo piede sul fiume della disperazione. Non era solo un’app il problema. Era l’intero paesaggio che si squarciava davanti a me.
Capitolo 1: Le Porte di SPID
SPID: il Sogno Promesso dell’identità digitale.
Un solo accesso per tutti i servizi, dicevano. Una chiave universale.
Fu invece il primo labirinto.
Ogni provider chiedeva dati già dati, ogni attivazione un percorso a ostacoli degno delle fatiche di Ercole. Webcam rotte, sistemi KO, documenti caricati e respinti senza ragione.
E quando finalmente si otteneva l’identità, si scopriva che ogni sito aveva le sue versioni di SPID, i suoi errori, i suoi modi propri di dimenticare chi eri.
L’identità digitale non era un diritto: era una caccia. Una caccia all’uomo di cui eri al tempo stesso cacciatore e preda.
Eppure, anche quella prova, anche quella fatica sembrava sopportabile, se solo avesse portato a un approdo sicuro.
Invece, come nelle spedizioni verso terre inesplorate, quando finalmente si intravedeva una costa, la delusione era ancora più grande. Perché SPID, costruito come un ponte verso il futuro, non era che un molo spezzato che non conduceva altrove.
Laddove si pensava che quell’identità, così faticosamente forgiata, potesse aprire le porte dell’Europa digitale, si scopriva che il mondo oltre le frontiere era alieno a quel segno.
Non un’identità europea. Non un passaporto riconosciuto. Solo un simulacro: valido qui, inutile altrove.
Le normative che avrebbero dovuto integrare SPID in un tessuto unico — l’eIDAS, le regolamentazioni comunitarie — erano rimaste parole sospese, promesse in attesa di compiersi. SPID non era interoperabile. Non era automaticamente accettato nei sistemi pubblici degli altri Stati membri.
E così il viaggiatore digitale, forte del suo titolo conquistato a caro prezzo, si trovava di fronte a nuovi cancelli chiusi, a nuove richieste di credenziali, a nuove domande di identità che il suo certificato non poteva soddisfare.
Non era stato costruito un ponte. Era stato scavato un fossato.
E nella nebbia delle norme non armonizzate, tra portali che ignoravano il suo SPID come si ignora uno straniero senza visti, l’uomo capiva l’ultima verità amara:
quella chiave universale era stata forgiata per una prigione. Non per la libertà.
Capitolo 2: PagoPA e il Tributo all’Inaccessibile
PagoPA: il totem della semplificazione dei pagamenti pubblici.
Mai slogan fu più crudele.
Ogni bollettino si trasformava in un rompicapo. QR code illeggibili. Errori di sistema. Pagamento avvenuto, ma non registrato. Commissioni che spuntavano come funghi velenosi a ogni clic.
E il peggio: la totale mancanza di corrispondenza tra il sistema che pagava e quello che registrava il pagamento.
La semplificazione aveva generato un mostro bifronte: un sistema che chiedeva soldi, ma non sapeva ammettere di averli ricevuti.
E tu, povero viaggiatore, rimanevi sospeso, prigioniero tra il debito e la burocrazia, senza appello.
Ma l’inganno non finiva qui.
Perché, spinto dal bisogno o dalla speranza, credevi che almeno quella fatica, quella danza macabra tra piattaforme difettose, potesse permetterti di saldare i conti in ogni angolo d’Europa.
E scoprivi allora che PagoPA, nonostante i proclami di modernità, era figlio di un’epoca chiusa, incapace di dialogare con il mondo che avrebbe dovuto raggiungere.
Pagamenti che, per norma europea, avrebbero dovuto fluire senza confini, si infrangevano contro muri invisibili. Normative PSD2 ignorate o interpretate in modi arbitrari. Procedure non armonizzate. Portali pubblici incapaci di ricevere denaro se non da circuiti rigidamente nazionali.
Anche nell’Europa del mercato unico, anche nel tempo della moneta comune, il pagamento rimaneva una questione di dogane elettroniche, di frontiere invisibili.
Non bastava volere pagare: bisognava sapere a quale regno digitale appartenevi.
PagoPA, che avrebbe dovuto essere il ponte tra cittadino e Stato, tra Italia ed Europa, si rivelava essere solo un labirinto intricato, senza cartelli né uscite, dove l’unico scopo era mantenere viva la macchina della procedura.
E mentre il viaggiatore contemplava il suo pagamento perso tra sistemi incompatibili, la sua ricevuta negata, il suo debito eterno, comprendeva l’amara verità:
non si stava pagando per ottenere un servizio. Si stava pagando per il diritto di continuare a pagare.
Capitolo 3: INPS, il Castello del Nulla
Non vi è niente di più desolante del portale INPS.
Un monumento alla negazione dell’uomo.
Accedervi era come penetrare un castello disegnato da Kafka: infinite sale, corridoi che si richiudono, stanze senza uscita.
Ogni richiesta — pensione, bonus, sussidio — si perdeva in una rete di moduli da compilare, stampare, reinviare. Spesso in contraddizione tra loro.
Assistenza telefonica? Una voce meccanica che ti accompagnava fino al bordo della comprensione per poi buttarti giù senza preavviso.
E dietro tutto questo: l’indifferenza solenne di un sistema che, invece di sostenere, metteva alla prova la tua resistenza psicologica.
Ma, ancora una volta, l’inganno non si limitava a quei confini.
Perché il pellegrino digitale, dopo aver percorso ogni stanza del castello, dopo aver esibito ogni documento, ogni dichiarazione, ogni modulo richiesto, scopriva che l’opera non finiva lì.
Se mai avesse pensato di spostare il suo diritto — la pensione, l’assicurazione sociale, la tutela conquistata a prezzo di anni — verso un altro paese, verso un’altra sponda dell’Europa unita, avrebbe trovato ad attenderlo un deserto ancora più crudele.
Gli accordi comunitari esistevano, certo: convenzioni, regolamenti, promesse.
Ma erano scritte su carta che si sgretolava al primo contatto con la realtà.
Non vi era interoperabilità effettiva tra gli enti previdenziali. Non vi era un registro unico. Non vi era una rete che sapesse leggere in modo coerente i tuoi contributi, il tuo lavoro, la tua vita.
Ogni trasferimento diventava un’odissea di PEC, di richieste di certificati mai riconosciuti, di procedure oscure affidate a funzionari ignari o impotenti.
E così il viaggiatore, che credeva nella promessa di una cittadinanza europea, si trovava ancora una volta intrappolato nel castello: un cittadino invisibile per il paese d’arrivo, e un estraneo per quello d’origine.
La pensione, il diritto, la sicurezza sociale — tutto restava prigioniero tra le mura di INPS, come un relitto dimenticato.
La libertà di movimento, celebrata in ogni trattato, si dissolveva al primo contatto con le pratiche concrete.
E capivi allora che l’Europa digitale, come il castello di Kafka, era stata costruita per promettere accesso e garantire esclusione.
Un labirinto senza centro. Un diritto senza porta.
E il viaggiatore, stanco, non poteva che sedersi tra i corridoi vuoti, ascoltando l’eco delle sue stesse domande rimbalzare contro muri sordi.
Capitolo 4: La PEC e il Mito della Tracciabilità
PEC! La Posta Elettronica Certificata — orgoglio nazionale, vanto della modernizzazione.
Prometteva sicurezza, tracciabilità, ufficialità.
In verità, consegnava solo nuovi strumenti di tortura.
- Caselle intasate.
- Formati incompatibili.
- Allegati rifiutati da sistemi incapaci di leggere i propri stessi certificati.
La certezza della comunicazione si traduceva nella certezza dell’errore.
Ogni PEC inviata era come una bottiglia gettata nell’oceano, senza sapere se, dove e quando sarebbe approdata.
E se osavi pensare di chiudere una casella PEC? Dovevi inviare una PEC alla PEC stessa, certificando la certificazione della certificazione.
Un paradosso avvolto in un’atroce ironia burocratica.
Eppure il vero inganno, quello più sottile, si rivelava solo oltre i confini.
Si scopriva allora che la PEC, che doveva essere il passaporto della comunicazione ufficiale, era in realtà confinata come un dialetto incomprensibile.
Fuori dall’Italia — tranne poche, rare eccezioni — nessuno riconosceva il valore legale di quel messaggio certificato. Nessuno si fidava di quelle ricevute, di quelle firme, di quei sigilli digitali.
Non vi era interoperabilità reale con i sistemi europei previsti da eIDAS. Non vi era scambio automatizzato, non vi era equivalenza certa. Solo silenzio. Solo rifiuto.
E così, mentre il cittadino italiano credeva di aver compiuto un gesto solenne, irrevocabile, incontrovertibile, dall’altra parte del confine il suo messaggio svaniva come nebbia.
Nulla era garantito. Nulla era certo.
Nemmeno il diritto a dimostrare di aver comunicato.
La tracciabilità tanto celebrata si rivelava essere una tracciabilità monca, chiusa, incapace di valicare i limiti di un sistema che si era costruito su sé stesso senza mai guardare oltre.
E nel comprendere tutto questo, il viaggiatore non sentiva più rabbia. Solo la pesantezza amara di chi sa di avere gridato a lungo verso il mare, senza che nessuno abbia mai ascoltato.
Capitolo 5: Il Deserto delle App Pubbliche
Le app delle pubbliche amministrazioni i miraggi nel deserto.
IO App. App PosteID. App INPS Mobile.
Ognuna una promessa. Ognuna una trappola.
Crashing continui, aggiornamenti obbligatori senza preavviso, login infiniti, notifiche che avvertivano solo dopo che i termini per agire erano già scaduti.
Ogni app, invece di servire, ti rendeva ancora più schiavo del sistema che pretendeva di semplificare.
La digitalizzazione era diventata un rito propiziatorio a divinità cieche.
E se il deserto già appariva spietato, vi era un’ulteriore illusione che il viaggiatore apprendeva troppo tardi.
Perché quelle app, quei portali, quegli strumenti pensati per avvicinare il cittadino alla cosa pubblica, si rivelavano incapaci di parlare con il mondo.
Non vi era integrazione reale tra le app di uno stesso Stato. Figurarsi tra Stati diversi.
Ogni nazione erigeva le sue piattaforme, i suoi codici, le sue regole. Ogni procedura era concepita per funzionare soltanto dentro le mura invisibili della propria burocrazia.
L’IO App, che pretendeva di essere il cuore pulsante della cittadinanza digitale, era un cuore che batteva solo nella lingua madre di chi l’aveva partorito. Nessuna interoperabilità certa con gli equivalenti strumenti europei. Nessuna portabilità automatica di certificati, di identità, di documenti.
La promessa di una Europa digitale unificata — di un’unica cittadinanza fatta di bit e diritti — si dissolveva come una fata morgana.
Restava il deserto. Restavano le dune mobili di normative locali. Restavano gli abissi tra una app e l’altra, tra un Paese e l’altro, tra una speranza e la realtà.
E tu, viaggiatore, camminavi, assetato, portando in mano il tuo smartphone come una bussola impazzita, seguendo mappe disegnate su sabbie che il primo vento cancellava.
E alla fine, in quel deserto di sabbia e bit, non trovavi né acqua né approdo. Solo il silenzio sterminato dei dati dispersi.
Capitolo 6: Il Culto Oscuro dei Dati
Non bastava subire. Bisognava anche offrire sacrifici.
Ogni login, ogni pagamento, ogni domanda: una nuova richiesta di dati. Sempre più intimi, sempre più inutili.
Codici fiscali, foto, certificati, firme. Anche per rinnovare un abbonamento, anche per correggere un indirizzo.
Il cittadino si trasformava in una pianta da spremere.
La digitalizzazione non si preoccupava di cosa servisse. Si preoccupava solo di raccogliere. Sempre di più. Sempre senza restituire nulla.
E anche qui, la tragedia non si arrestava ai confini della patria.
Perché mentre l’Europa si vantava di aver promulgato il GDPR, il grande scudo della privacy digitale, in realtà dietro i proclami si stendeva un mercato invisibile di dati richiesti, duplicati, dispersi senza controllo.
Ogni Stato aveva la sua interpretazione. Ogni amministrazione la sua versione del consenso. Ogni piattaforma la sua personale visione della protezione.
La teoria era perfetta: minimizzazione dei dati, finalità chiare, diritti dell’interessato. La pratica era il caos.
Ti veniva chiesto il codice fiscale per leggere una bolletta. Ti veniva richiesto un certificato medico per accedere a un bonus.
E ogni volta, anche dopo l’invio, non vi era certezza di cancellazione, di sicurezza, di riservatezza reale. Solo server lontani, opachi, incontrollabili.
La protezione dei dati diventava così un culto oscuro: un insieme di rituali senza senso, invocati con solennità ma traditi ogni giorno nella sostanza.
E tu, viaggiatore nel labirinto digitale, capivi l’ultima, feroce ironia: non eri più un cittadino. Non eri neppure un cliente. Eri una somma di attributi, una raccolta di numeri, una miniera da esplorare.
E più camminavi, più dati lasciavi indietro, come briciole che nessun sentiero avrebbe più potuto ricomporre.
In quel mondo di leggi senza legge, il diritto alla protezione era solo un mito, come le città d’oro inseguite da esploratori folli. Un’eco in una giungla senza fine.
Epilogo: Nel Cuore della Procedura
Alla fine rimaneva solo una sensazione. Non di progresso. Non di modernità. Solo di isolamento.
Alla fine non vi era differenza. Non tra il pubblico e il privato. Non tra l’amministrazione e l’impresa.
Ogni portale, ogni app, ogni procedura, parlava la stessa lingua muta: quella della digitalizzazione che non serve nessuno se non se stessa.
Il cittadino, l’utente, il viaggiatore erano diventati accessori marginali, comparse in un rituale che non li riconosceva, che non li voleva.
La tecnologia — nata per avvicinare, per liberare, per semplificare — era stata catturata. E ora, come un idolo cieco, esigeva offerte continue: dati, click, moduli, consensi. Non per costruire ponti. Non per risolvere bisogni. Ma solo per celebrare il proprio stesso esistere.
Il privato prometteva efficienza e cuciva intorno a sé labirinti di app inutili, richieste assurde, muri d’ignoranza programmata. Il pubblico prometteva diritti e offriva muri ancora più alti, portali ancora più chiusi, voci automatiche che recitavano leggi svuotate di significato.
Nessuno più pensava a chi avrebbe dovuto camminare in quei corridoi. Nessuno più costruiva ponti. Costruivano solo specchi, in cui la procedura si rimirava compiaciuta, eterna, inutile.
Alla fine non c’era rabbia. Non c’era più neanche indignazione. Solo una stanca, profonda disperazione.
Un senso di solitudine digitale, come se ognuno di noi fosse intrappolato in un universo parallelo, fatto di codici, errori, burocrazie senza volto.
Un mondo dove la tecnologia, anziché servire, si serviva. Dove ogni clic era un atto di fede, ogni processo un rito incomprensibile, ogni attesa una forma di espiazione.
E nel cuore di quella disperazione, la verità più atroce:
Non era incapacità tecnica. Era incapacità umana.
Non era ignoranza dei linguaggi di programmazione. Era ignoranza dei linguaggi del vivere.
Non era il fallimento delle macchine. Era il trionfo della sterilità.
E noi, uomini stanchi, camminavamo ancora, illudendoci di cercare un’uscita, mentre intorno a noi il buio si faceva più fitto, più denso, più definitivo.
Non era più questione di errore, o di incompetenza. Era una scelta. Una dedizione totale all’inutile.
E la colpa? La colpa era mia. Mia per aver sperato.
E la procedura, nel suo cuore più nero, sorrideva silenziosa, eterna.
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