Non me ne voglia Fabio se metto becco sulla economia. Non è il mio campo ma talvolta due pensierini ti vengono.
Premetto subito che non sono un amante della economia basata sulla borsa, se devo fare il tifo sono uno che tifa per la produzione di beni e servizi. Ho sempre trovato che la borsa sia un gestore di flussi di denaro, e non un creatore di ricchezza, il che non significa che non ci si possa arricchire, ma che la ricchezza non è stata prodotta li, ma altrove, e poi drenata da quelle parti.
Parte della mia disaffezione sulla borsa riguarda, lo ammetto, il fatto di essere italiano, il che mi porta a confrontarmi con un mercato dove il concetto di rischio imprenditoriale e di investimento sono termini invisi al management, da noi quando chiedi quale è lo scopo della azienda la risposta è: fare soldi. povero Ford, lui pensava che invece si dovesse fare denaro producendo qualcosa…
Dalle Bolle…
Il mio primo impatto reale col mondo della finanza, e della borsa in particolare, nasce con lo sviluppo di internet e la bolla speculativa esplosa poi negli anni 90. chi ha un minimo di rimembranza in merito ricorderà che in origine furono Amazon e Yahoo a creare un trend. In quel periodo, anni 80 qualche eone fa, tutto ciò che era internet era “cool”, le web company nascevano come funghi e i venture capital manager facevano la gara a finanziare anche le idee più strampalate. In quel clima di euforia poche realtà avevano un serio piano di crescita, Amazon, Yahoo e dopo Google, erano alcune di quelle. Qualcuno ricorderà il concetto di crescita rapida di Amazon, che investi tutto il denaro in arrivo per garantirsi una crescita dimensionale a scapito dei risultati annuali, scegliendo la strada del passivo contabile, rifinanziandosi attraverso le borse per raggiungere la massa critica necessaria a diventare la azienda di oggi (adoro la storia di Amazon perché è la dimostrazione che un passivo contabile può essere un attivo economico).
Ma cosa era successo? Perché nessuno analizzava cosa ci fosse dietro?
Dal mio punto di vista, da osservatore esterno e non competente, direi che ci sono stati due fattori trainanti:
- da un lato la apertura di un nuovo mercato, condizione fondamentale per un meccanismo economico che si basa sulla assunzione della crescita perenne.
- dall’altro la assoluta convergenza di realizzi in tempi di breve periodo promessi dalle web company e intrinseci al DNA della borsa
La apertura di nuovi mercati storicamente porta le borse a infilarsi in bolle speculative, particolarmente se questi sono legati alle nuove tecnologie. Era già successo con i treni proprio negli USA, ed in parte sta succedendo adesso con il mercato delle auto.
L’ansia del guadagno facile spesso porta gli operatori a sottostimare il rischio. Si tende a dimenticare che l’economia è una scienza sociale, nel senso che la componente umana assolve un ruolo determinante, nel bene e nel male.
Ora è proprio nella gestione del rischio che la borsa dovrebbe affondare parte della sua ragione di essere. Capitalizzarsi in borsa rispetto alla richiesta ad una banca o un finanziatore singolo permette un più facile reperimento di capitali e un abbassamento del rischio di impresa per chi distribuisce i suoi investimenti.
Il problema della gestione del rischio però è qualcosa che, in parte, capisco in quanto mi occupo di sicurezza. Ok la sicurezza informatica non è la finanza, ma provo a portare parte della mia professionalità in quest’ambito.
La prima distonia che vedo è la differenza di orizzonte temporale.
Ogni produzione, beni o servizi che sia, ha i suoi tempi e le sue ciclicità. La valorizzazione della produzione non è costante per motivi che possono essere i più disparati, dai tempi di refresh tecnologico (si pensi alla differenza tra la legge di Moore vs il refresh tecnologico del mercato auto) alla concorrenza, ai mutamenti culturali (cosa è cool oggi può non esserlo domani), e via dicendo.
Niente di nuovo sotto il sole.
Ora se è vero che ogni attività produttiva ha i suoi tempi di espansione, è anche vero che chi investe in borsa se ne frega abbastanza delle esigenze di produttività. Qui il dogma non è la produzione ma il realizzo rapido. Questo non è un problema in fase espansiva, ma diventa un peso in fase recessiva o stagnante. La ciclicità della produzione quindi si scontra con le esigenze di monetizzazione del mercato borsistico, che pone vincoli spesso controproducenti nell’ambito della economia del produttore.
Dipendere troppo dalla borsa e dalla sua indicizzazione può spingere il management di una azienda a compiere, in fase di recessione, scelte irrazionali dal punto di vista produttivo. Un esempio di questo andamento è il mercato dell’auto.
Il mercato automobilistico non è un mercato infinto, ci sono dei limiti al numero di auto che un utente può acquistare. La spinta al ricambio, per altro, non è giustificata da un effettivo ricambio tecnologico. In questo mercato vi è stato l’intervento mediatore dello stato che ha fornito un alibi tecnologico al ricambio inserendo vincoli ambientali (in Europa i vincoli “euro n”) abbastanza slegati da considerazioni ambientaliste o di effettivo valore tecnologico.
Se il comparto informatico fosse cresciuto, in termini di tecnologia, con lo stesso ritmo di quello automobilistico oggi saremmo ancora alla macchina di Touring.
Purtroppo investire in tecnologia comporta costi e tempi abbastanza lunghi, ne consegue che la crescita del mercato dell’auto doveva essere fatta, per mantenere i costi bassi ed i realizzi rapidi, a spese di questo tipo di investimento, con bene placido di banche e borse.
Il risultato è la bolla attuale, in cui i nodi di un sistema inefficiente hanno provocato una crisi di cui è il contribuente a pagare il conto, dopo aver pagato per anni una crescita innaturale e, mi si conceda, economicamente demenziale.
Se si fa caso spesso viene premiato in borsa un depotenziamento delle capacità produttive a fronte di una crisi, senza fare analisi di medio periodo sulle conseguenze che tale depotenziamento comporta. Licenziamenti e delocalizzazioni assumono sensi profondamenti diversi se si accompagnano a seri investimenti di sviluppo tecnologico o se sono semplicemente operazioni di cost reduction.
La distonia temporale porta come conseguenza tipica un senso deviato del concetto di ROI, dove il ritorno dell’investimento viene calcolato senza tener presente il reale ciclo di vita produttivo, e alla definizione di budget in perenne crescita, indipendentemente dalle condizioni al contorno.
La seconda distonia che riscontro è insita nel concetto di gestione del rischio.
Il risk management prevede delle azioni che, come estrema semplificazione, si possono consolidare in 3 termini:
- valutazione del rischio
- mitigazione del rischio
- trasferimento del rischio
Queste operazioni hanno un costo e dei benefici. Il concetto base è che la somma totale dei costi associati al rischio non deve superare il valore protetto.
la valorizzazione del rischio R dipende dal contesto e si basa fondamentalmente su 2 parametri: la grandezza della potenziale perdita L e la probabilità p che la perdita effettivamente debba essere sostenuta.
è abbastanza logico imporre che Rtotal sia maggiore o uguale alla somma dei costi di gestione del rischio C e che la differenza tra Rtotal e Ctotal sia la nostra propensione al rischio.
è da notare che Ci è una funzione che dipende in qualche modo da Ri e quindi è in realtà un Ci (Ri )
Nel caso in cui Rtotal sia minore dei costi di gestione del rischio Ctotal diventa antieconomico proteggersi e quindi o non percepiamo il rischio della attività, il rischio è nullo, o i costi di protezione rendono la attività antieconomica.
dal punto di vista della esperienza day by day associamo a questa gestione gran parte dalle nostre attività:
posso attraversare la strada?
posso comprare questa cosa?
posso stare con questa persona?
Il “rischio” deriva dalla nostra incapacità di effettuare scelte assolute e sicure a causa della indeterminabilità di una serie di fattori. Volenti o nolenti le attività di gestione del rischio sono alla base della nostra esperienza quotidiana e le affrontiamo in funzione della nostra personale propensione al rischio.
Un sistema produttivo non si discosta molto da questa visione, la gestione del rischio diventa una componente della imprenditorialità e si confronta
Nel mercato borsistico però avviene una gestione del rischio abbastanza innaturale, almeno dal punto di vista umano. Il rischio diventa una cosa astratta, non reale, e viene quindi più facilmente trasferito. Il problema della trasformazione e trasferimento del rischio però non ne mitiga la essenza fondamentale.
Quello che è successo con il mercato dei subprime legati ai mutui per l’acquisto di una casa negli USA fondamentalmente è stata una magistrale operazione di trasferimento del rischio; mascherandolo con formule finanziare ardite nei fatti si è trasferito il rischio ad altri alimentando la artificiosa sensazione che questa operazione mitigasse il rischio medesimo.
Essendo le operazioni di borsa, abbiamo detto prima, sensibili al guadagno facile i prodotti derivanti erano appetibili, in ottica di breve periodo, contando sul fatto che questi potevano essere a loro volta rimodellati per essere trasferiti ad altri. Questo ha consentito un innaturale innalzamento della propensione al rischio in quanto la componente percepita C era in realtà aleatoria e non funzione reale del vincolo di rischio.
In un mercato in espansione (anche se fittizia) il meccanismo funzionava in quanto il trasferimento del rischio consentiva l’afflusso di nuovi capitali di rischio che consentivano l’erogazione di nuovi mutui che a loro volta permettevano al mercato immobiliare di aumentare i prezzi al di fuori delle logiche di produzione di quel mercato. L’aumento del valore della case abbassava apparentemente il rischio di una perdita ma in realtà essendo questo aumento slegato dalle economie specifiche di quell’ambito produttivo, era ancora una volta un trasferimento e non una mitigazione.
Il problema sorge quando occorre realizzare “realmente” dalla produzione. In questo caso ci si accorge che il rapporto tra domanda ed offerta è squilibrato e questo comporta, nel mondo reale, una variazione del mercato. Purtroppo la variazione è stata, come era abbastanza sensato aspettarsi in questo caso, in direzione di una contrazione della capacità di spesa ed il conseguente deprezzamento delle case.
Del resto se la capacità reale di acquisto degli americani rimane legata al loro stipendio, o questo cresce con il crescere dei costi delle case o il giochino si rompe.
A questo punto è successo che la “mitigazione” del rischio in realtà non esisteva e che il differenziale tra il rischio ed i costi di gestione faceva aumentare di gran lunga la propensione al rischio associata alla operazione.
Gli operatori hanno iniziato quindi a cercare di liberarsi di questi prodotti troppo rischiosi instaurando un meccanismo di crisi. La propensione al rischio è stata forzosamente portata a zero per il calo generalizzato di fiducia e questo ha reso la funzione di rischio antieconomica.
Nei fatti se doveva essere:
Rtotal – Ctotal = propensione al rischio
essendo la propensione al rischio diventata 0
si ha
Rtotal = Ctotal
Se ci ricordiamo abbiamo prima osservato che i costi di gestione del rischio sono una funzione della natura e contesto del rischio stesso. Un meccanismo di gestione di risk management slegato dalla reale natura del rischio di fatto è fittizia, la conseguenza è stata che Ctotal in realtà non solo non era uguale ad Rtotal ma molto più bassa.
I soldi che dovevano essere investiti per aumentare Ctotal al fine di mantenere la propensione al rischio entro valori accettabili non esistevano, spariti.
Questa operazione svolta in assoluta legalità è nei fatti la riproposizione, in termini di risk management, del classico Ponzi Scam.
Pur concedendo il fatto che questa è una analisi abbastanza semplicistica rimane il fatto che gli analisti di borsa e gli inventori dei prodotti finanziari basati sui subprime avrebbero dovuto o sapevano benissimo che la dinamica del mercato avrebbe chiesto, alla fine, il conto.
La operazione è stata voluta e consapevole, sapendo che prima o poi qualcuno avrebbe dovuto pagare il conto di una truffaldina gestione di risk management. Budget e manager si sono macchiati, nei fatti, di una operazione che se dal punto di vista etico era lecita (legalizzata di regolamenti della gestione della finanza) da un punto di vista morale risultava decisamente discutibile.
Curiosamente in altri ambiti economici, infatti,questa operazione è considerata una truffa.
Immaginate che io vi venda una polizza di assicurazione ma che, in realtà, non disponga assolutamente del capitale per assolvere agli obblighi della polizza, intaschi i soldi e poi me ne vada allegramente a vivere in un paradiso caraibico…
… alle Balle
Ora questa allegra gestione nei fatti non è legata solo ai subprime od alla bolla immobiliare statunitense. Il problema è di natura generale.
Le distonie di cui parlavo prima esistono anche in altri settori, sopravvivendo in un meccanismo delicato di crisi cicliche e riconciliazioni. Sta al lavoro degli economisti capire se queste oscillazioni siano convergenti o meno, ed eventualmente quali correttivi porre per garantirsi la convergenza.
Dal mio punto di vista di mero osservatore non competente posso solo osservare che se il meccanismo è prono per sua natura allo sviluppo di bolle speculative, è evidente che occorrono interventi strutturali che indirizzino non solo la bolla speculativa per se, ma il meccanismo che la ha creata.
Nel caso specifico la gestione truffaldina del trasferimento di rischio mascherandolo come mitigazione del rischio medesimo va indirizzata ad hoc.
A questo punto, estremizzando, trovo francamente ridicolo che si monti il caso Madoff e lo si accusi di aver utilizzato gli stessi modelli che ho descritto sopra accusandolo di aver effettuato una truffa.
Siamo, purtroppo, in presenza di una imbarazzante mancanza di trasparenza e di un diffuso uso della comunicazione “aggiustata” o contestuale (io le chiamo Balle, ma non è politically correct, ne convengo). Si usa Madoff per dimostrare la pulizia del sistema e si omette di descrivere questa crisi come in parte causata dagli stessi meccanismi. Il risultato che Manager e banchieri sono stati “salvati” tramite fondi pubblici per permettere al sistema di continuare ad alimentare il problema.
In Italia si direbbe “cornuti e mazziati”.
La ricaduta della crisi è principalmente una crisi di fiducia, col calare della fiducia cala la propensione al rischio e quindi crescono i costi del risk management.
Non potendo questi crescere oltre certe soglie per diversi motivi ne risulta che il differenziale (rischio – costi di gestione del rischio) è maggiore alla effettiva propensione al rischio.
La conseguenza è il disinvestimento, che porta le aziende ad avere problemi di liquidità necessari alla gestione della produzione che, insensibile ai guru della finanza, continua a funzionare in base alle esigenze proprie.
I vincoli posti per il ottenere il necessario finanziamento impongono una riduzione dei costi di produzione ottenibile, tipicamente, tramite la dismissione di unità produttive, ed un aumento dei costi del finanziamento stesso per coprire l’abbassamento della soglia di rischio.
Questo genera per le aziende da un lato un aumento dei costi per ottenere i finanziamenti e dall’altro la diminuzione di capacità produttiva.
Si noti che in questo meccanismo perverso a farne le spese è la produzione in quanto il comparto finanziario mitiga i rischi della sua cattiva gestione proprio a scapito del generatore di valore.
In altre parole chi ha generato per i suoi comportamento la crisi chiede al contribuente soldi per coprire i suoi errori e, contestualmente, fa pagare la stessa crisi al generatore di valore, la produzione. Mi sfugge però quale sia il valore aggiunto che offre alle dinamiche economiche, se non l’arricchimento a spese del tessuto produttivo reale.
Se questo valore consiste nel gestire il rischio del capitale nei confronti della impresa per permettere alle imprese sane di crescere in maniera efficiente ed efficace e consentirgli un accesso alle risorse finanziarie necessarie al suo sviluppo ed alla sua trasformazione in tempi di crisi…beh … ho come la impressione che abbiamo qualche problema.
Consideriamo poi le conseguenze più in basso:
- le delocalizzazioni e le dismissioni di unita produttive comportano licenziamenti.
- le persone licenziate subiscono un calo drastico del reddito e quindi contribuiscono da un lato al calo dei consumi e dall’altro all’abbassamento della fiducia
- questi ultimi due fattori portano ad un abbassamento della propensione al rischio ed al relativo aumento dei costi di finanziamento
- l’aumento dei costi di finanziamento aumenta le barriere all’ingresso di nuove attività produttive che potrebbero portare ad una ripresa della produzione e del consumo
Come dirlo diversamente
… per risolvere la crisi del mercato immobiliare non ha senso ora non erogare più mutui, ma occorre darli valutando correttamente il rischio ed il valore dell’immobile. Tradotto se guadagno 1000 euro al mese difficilmente ha senso finanziarmi una villa da un milione di euro… ma una casa mi serve quindi questo è un investimento finanziario che ha un senso economico.
… per superare la crisi di molti settori produttivi (vedi l’auto), occorre investire in rinnovamento tecnologico che non può esserci senza l’afflusso di capitali. prima ancora che l’uso di fondi pubblici, le banche salvate devono reinvestire i soldi ricevuti in queste attività.
Il meccanismo della crisi è perverso, non sono in grado di definire quale sia il suo grado di involuzione a livello globale, ma posso dare qualche impressione a livello italiano.
l’Italia, come molti sapranno, è la ex ottava economia del mondo.
Ha puntato negli anni, strategicamente al disinvestimento delle funzioni di ricerca e sviluppo, ha scelto, sempre strategicamente, di disincentivare la qualità della formazione al fine di permettere alla manodopera di non riqualificarsi. Ha poi oculatamente evitato che le infrastrutture diventassero aggiornate e moderne. Con scelte di campo decise ha puntato, ad esempio, sull’automobile tradizionale contando sulla enorme diversificazione della nostra economia capace di assorbire senza battere ciglio ad una crisi di quel comparto. Ha fatto della trasparenza il suo credo, rendendo lecito il falso in bilancio (perché nasconderlo, suvvia)…
Ed ha affrontato questa crisi mondiale col sorriso e la fiducia di chi sa che nel torbido si pesca meglio….
Ah la crisi non c’è, ma fondamentalmente per sorpassarla basta solo la fiducia.
la vedo dura….
ciao
A